Concetta Gentili*

I dati Istat del 2006, certamente risalenti nel tempo, rilevano che sono state 690 mila in Italia le donne che hanno subito violenze ripetute da partner e che avevano figli al momento della violenza; il 62,4% ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più episodi di violenza: nel 19,6% dei casi i figli vi hanno assistito raramente, nel 20,2% solo a volte, nel 22,6%, purtroppo, spesso.

Tutte sappiamo cosa sia la violenza assistita, lo sappiamo perché, oltre a conoscerne gli aspetti teorici la incontriamo nei racconti delle nostre donne e negli occhi dei bambini che ospitiamo nelle nostre case.

I danni che la violenza assistita provoca sono di enorme rilevanza e sono incrementati da una minimizzazione del fenomeno tutta figlia di quella cultura patriarcale su cui fonda lo stereotipo che separa la figura dell’uomo violento con la propria compagna, da quella del padre che non ha competenza genitoriale: “È un cattivo marito, ma un buon padre!” è, infatti, una frase frequentissima non solo nei contesti privati, ma anche in quelli giudiziari ed istituzionali.

Come detto, è, ancora una volta un problema culturale: una cultura diffusa che vuole preservare, sempre e comunque, la figura del padre, nel desiderio di conservare un’idea presepiale di famiglia stereotipata dove, sempre e comunque, le figure genitoriali vanno preservate, e che ha la vista corta perché questi bambini manifesteranno con buona probabilità, non solo difficoltà nel presente, sia con gli adulti che col gruppo dei pari, ma anche nel futuro, inficiando le proprie relazione affettive adulte.È uno dei drammi più intollerabili a cui assistiamo e che provoca, in ciascuna di noi, rabbia e, spesso, senso d’impotenza, soprattutto quando le nostre istanze di giustizia, vengono disattese da chi, invece, proprio nell’ottica dell’interesse dei minori dovrebbe accoglierle tout – court.

In “Vite in Bilico, Indagine retrospettiva su maltrattamenti ed abusi in età infantile” Roberta Luberti ha evidenziato come la violenza assistita determini nei bambini la compromissione di intere aree di sviluppo, come il legame di attaccamento, l’adattamento e le competenze sociali, i problemi comportamentali, le abilità cognitive, il problem solving, l’apprendimento scolastico. Non solo, questi bambini impareranno un modello relazionale con cui solo drammaticamente riusciranno a confrontarsi: “a chi voglio assomigliare? Al mio papà che è forte e potente o alla mia mamma che è dolce, ma si lascia soverchiare?

Sino a poco tempo fa non esistevano “risposte di sistema” a questo dramma, non c’erano norme giuridiche che imponessero, al di là del buon senso, ai tribunali d’intervenire a tutela di questi bambini: la violenza assistita era una categoria esclusivamente di carattere psico – sociale,

Eppure alcuni giudici come, ad es. Donatella Donati (TM di Bologna), avevano già evidenziato come “Gli stereotipi culturali che alimentano la negazione o la minimizzazione della violenza all’interno della famiglia, la minore evidenza del trauma psicologico ed emotivo del bambino rispetto a quello fisico, e, alle volte, i meccanismi difensivi degli operatori, hanno impedito a lungo di apprezzare la reale portata del fenomeno e i danni riportati dai minori (“La violenza contro le donne una lettura del fenomeno come discriminazione di genere” in http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-violenza-contro-le-donne_16-12-2013.php)

A ciò si aggiunga che, inoltre, è frequentissima la confusione tra contesto conflittuale e contesto violento. Questa confusione, toglie luce alle vittime e, contemporaneamente, pone ostacoli alla risoluzione dei problemi, proponendo “strade di uscita” non compatibili con la violenza stessa che spesso generano una traumatizzazione secondaria che avviene, a volte nelle aule di giustizia, ma anche nelle stanze di mediazione familiare, di psicoterapia di coppia, o infine attraverso le relazioni dei servizi sociali. Quando, infatti il fenomeno violento è definito conflittuale, se ne minimizzano gli effetti non solo sugli attori principali, vittima ed aggressore, ma anche sui probabili spettatori coinvolti: la confusione tra conflitto e violenza pone, infatti, sullo stesso piano vittima ed aggressore e sul piano della violenza assistita non ascrive sufficientemente la responsabilità del trauma all’aggressore medesimo, sminuendo, la figura della madre nella sua funzione di possibile genitore protettivo

Anche dal punto di vista della normativa in tema di violenza assistita, il panorama è abbastanza scarno!

In Europa, già nel 2010, ancor prima della Convenzione di Istanbul – che direttamente nel preambolo riconosce che i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia – in ben due Raccomandazioni del Consiglio si parla di violenza assistita (Risoluzione del 12 marzo 2010, n. 1714, Children who witness domestic violence e la Raccomandazione del 12 marzo 2010, n. 1905, Children who witness domestic violence). In Italia, invece, le norme in materia risultano essere estremamente “giovani”, figlie delle ultime riforme in materia penale, nate dal desiderio, forse più di facciata che sostanziale, di anticipare la Convenzione entrata in vigore solo il 1/08/1.

Difatti, il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, comunemente detto “Legge sul femminicidio”, ha introdotto l’aggravante dell’art 61, n. 11 quinquies c.p. per tutti i delitti non colposi contro la vita e la incolumità individuale, contro la libertà personale (connotati cioè da violenza fisica), oltre che per il delitto di maltrattamenti in famiglia, commessi in danno o in presenza di minori.

La critica da farsi, da aggiungersi alle numerose critiche relative alla legge stessa, è proprio legata al fatto che un’aggravante non è una nuova fattispecie di reato, contribuisce ad aggravare la pena ma perde d’intensità laddove concorra, ad esempio, con le attenuanti generiche (si pensi all’incensuratezza) e quindi, c’è di fatto, il pericolo che essa perda efficacia.

Diverso sarebbe stato se, anziché un’aggravante, la legge avesse generato una nuova ipotesi di reato con un’apposita pena. La valenza, giuridica ma anche culturale, sarebbe stata certamente diversa.

La stessa legge ha anche modificato l’art 609 decies c.p., in tema di comunicazioni tra la Procura ordinaria ed il Tribunale per i Minorenni, prevedendo, al primo comma, che tale comunicazione venga fatta anche in caso maltrattamenti in famiglia o stalking, se commessi in danno di un minorenne, o da uno dei genitori di un minorenne, in danno dell’altro genitore; ed ha inserito, dopo il primo comma, un secondo, grandemente importante, che prevede che tale comunicazione sia considerata effettuata anche ai fini dell’adozione dei provvedimenti di cui agli articoli 155 e seguenti, nonché 330 e 333 c.c..

Tale introduzione, che anticipa l’art. 31 della Convenzione, ma anche gli artt 18 e 26 (in tema di protezione dei testimoni di violenza, e di supporto e protezione dei bambini testimoni), mostra a chiare lettere come il nostro legislatore non sempre sia preciso nel lessico e come tale imprecisione generi incertezza ermeneutica e produca problemi di coordinamento con la normativa già esistente. In questo caso, l’attenzione va focalizzata sul termine “Tribunale per i Minorenni”. Infatti il TM non ha alcun potere officioso d’impulso che, invece, è di competenza della Procura presso il TM medesimo. Questa circostanza ha generato la seria necessità, almeno tra le procure più sensibili, di stringere protocolli d’intesa proprio per evitare che la pedissequa aderenza al dato normativo, di fatto, sia in grado di bloccare una concreta azione di tutela dei bambini e, dove questo sistema funziona, è tangibilmente più frequente che le donne interessate al processo penale vengano, d’Ufficio, interessate anche a quello minorile, il che impone ancora maggiore attenzione nella scelta di querelare, da parte delle donne stesse, e nel redigere la querela da parte delle avvocate.

Sul piano del diritto civile e minorile l’entrata in vigore della L. 119/13 e della Convenzione hanno prodotto pronunce, sia di legittimità che di merito, estremamente interessanti: ad es. il Tribunale Roma (sez. I n. 1821/15 – Pres Crescenzi rel. Velletti) ha stabilito che “rispetto alla regola dell’affidamento condiviso, prevista dall’art. 337-ter introdotto dal d.lgs 154/13 (ex art. 155, terzo comma, c.c.), costituisce eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo: all’affidamento condiviso può infatti derogarsi solo ove esso risulti “contrario all’interesse del minore… sulla base degli elementi acquisiti nel corso del procedimento sono emersi profili di inidoneità genitoriale nei confronti del padre tali da legittimare un affidamento esclusivo del minore alla madre. Nel caso di specie è stata provata la manifesta carenza genitoriale del padre concretatasi in comportamenti di disinteresse nei confronti dei bisogni educativi e materiali del figlio, e soprattutto nell’aver agito violenza nei confronti della madre alla presenza del bambino. La violenza assistita costituisce di per sé elemento idoneo a giustificare sia disposto l’affidamento esclusivo alla madre”.

In tema di decadenza dalla responsabilità genitoriale il Tribunale per i Minorenni di Roma ha sottolineato come “vista alla luce dell’attuale concetto di diritto all’educazione, spettante ai figli minori di età, e quindi come potere dovere, come funzione od officium … la potestà genitoriale non ha più i contenuti autoritaristici di un tempo, e non può non avere, per sua natura, una portata globale dato che nella sua specifica finalità educativa, essa si caratterizza fondamentalmente come compito di guida, esempio teorico e pratico di vita, e quindi modello di identificazione” ed il TM di Napoli (10/12/14 Cron 6228/14 pres. Baruffo rel. Posteraro) proprio nella stessa ottica ha stabilito che “I bambini, alla presenza dei quali si sarebbero verificati numerosi episodi, hanno confermato in maniera precisa, circostanziata ed affidabile i maltrattamenti cui hanno assistito, raccontando ripetutamente, senza esitazioni né contraddizioni di sorta di avere visto più volte il padre picchiare la madre… E’ un dato pacifico ed incontestabile che tutti gli operatori che hanno avuto in carico la B. ed i minori hanno riscontrato in costoro i segni di disturbo post – traumatico da stress, compatibile con la riferita ipotesi di violenza (subita direttamente dalla B. ed assistita per quanto riguarda i minori)… tali elementi, non disgiunti da quanto la stessa sentenza penale afferma circa l’univiocità delle osservazioni di tutti gli operatori… circa l’evidente stato di gravissimo disagio causato nei minori dal comportamento del padre, certamente giustificano che lo stesso sia dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale”.

Queste pronunce sono una goccia nel mare. Troppe avvocate lamentano il fatto che la violenza assistita sia ancora assente nella mente dei giudici, che continuano a non riconoscerla e a non provvedere di conseguenza. Personalmente, credo siamo ancora lontani da un suo riconoscimento pieno nelle aule di giustizia, troppi gli stereotipi, troppi gli stigmi e soprattutto troppo radicata una cultura patriarcale che ci vuole ancora incasellati in famiglie da “mulino bianco”, dove l’orrido e l’indicibile restano dentro, celati, dunque nascosti e fortemente devastanti, ma non ancora sufficientemente riconosciuti da costituire un dato certo su cui fondare decisioni congrue e tutelanti.

*Avvocata, Cooperativa Eva, Napoli