La politiche che non vogliamo

Lella Palladino*

Difficile avere un quadro chiaro di cosa accade in questo momento nel nostro paese e di come si vanno strutturando le politiche istituzionali di prevenzione e contrasto della violenza visto lo scarto tra volontà dichiarate e azioni promosse.

Di certo però, mentre cresce l’indignazione generale sul susseguirsi incessante dei femminicidi e in tanti prendono la parola su quando e come intervenire in merito, i centri antiviolenza storici, quelli nati dal movimento delle donne, sempre più in difficoltà, stanno chiudendo.

A Roma come a Palermo, a Napoli come a Nuoro e a Pisa vengono chiusi o sospesi o non riescono a garantire tutte le attività che per anni hanno rappresentato l’unica risposta concreta per i problemi delle donne e dei loro bambini. È da tempo che molti centri sono allo stremo per il ritardo dei pagamenti ed il taglio dei fondi, lo abbiamo in più occasioni denunciato, ma le ragione di tante difficoltà non sono solo lo scarsissimo investimento di risorse economiche, o gli ostacoli di ordine amministrativo posti, bensì il tentativo di istituzionalizzare i centri antiviolenza svuotandoli di senso ed azzerandone la dimensione politica.

La rappresentazione della violenza è affidata nei media agli esperti, criminologi, avvocati, psicoterapeuti che propongono una lettura neutra del problema della violenza maschile contro le donne ben lontana dall’analisi femminista che sostiene il lavoro e la metodologia dei centri. Quella a cui assistiamo è una generale svalutazione della storia, delle esperienze e delle pratiche dei centri antiviolenza che, se è diventata palese con la pubblicazione del Piano Nazionale Antiviolenza, ora si concretizza con l’azzeramento delle condizioni di sostenibilità per essi.

A conferma di questo pericoloso orientamento l’ultima iniziativa del governo che, il 1 luglio, ha presentato a Piazza Montecitorio “Questo non è amore” la campagna itinerante contro la violenza sulle donne che, per i tre mesi estivi, porterà nelle vie e nelle piazze di 14 province italiane un camper della Polizia di Stato trasformato in centro di ascolto e di raccolta di eventuali denunce. Il primo e il terzo sabato del mese, a Roma, Sondrio, Brescia, Bologna, Arezzo, Macerata, L’Aquila, Pescara, Matera, Campobasso, Cosenza, Palermo, Siracusa e Sassari “scenderanno in campo dei pool di esperti costituiti da un medico/psicologo della Polizia di Stato, un operatore della Squadra Mobile, un operatore della Divisione Anticrimine o dell’Ufficio Denunce e un rappresentante della rete antiviolenza locale”.

Così come con il Decreto Giuliani nei Pronto Soccorso, una politica ancora una volta emergenziale, securitaria che affida il compito di ascolto e primo contatto ad operatori pubblici probabilmente anche maschi con il compito di sollecitare prioritariamente le denunce. Tutto molto lontano da quanto previsto dalla Convenzione di Instanbul a cui il ministro dell’interno Alfano ha fatto riferimento mentre, in compagnia della Ministra Boschi, dichiarava con una incredibile deriva autoreferenziale, che i femminicidi e le violenze sono diminuiti del 20%. Del resto riorganizzare l’ISTAT depotenziando il prezioso lavoro di Linda Laura Sabbatini è un disegno ben mirato per raccontare un paese che non esiste.

Nel disorientamento generale, nella difficoltà a leggere con lucidità le dinamiche in atto è sempre più evidente il grande attacco da parte delle istituzioni alla soggettività e alla libertà delle donne.

Negli ultimi decenni i centri antiviolenza insieme a poche altre realtà associative di donne hanno continuato a difendere la libertà e la soggettività delle donne, a valorizzarne la forza e le potenzialità, a parlare di disuguaglianza e discriminazione, a visibilizzare il potere maschile, denunciandone gli abusi, la prepotenza, la pervasività e la legittimazione. Sono stati l’humus nel quale il femminismo si è rigenerato nella trasmissione tra generazioni della sua forza eversiva e della sua critica al sistema economico e all’ordine simbolico patriarcale. Azzerare questa storia può essere molto pericoloso e determinare un arretramento per tutti.

Diventa urgente ora più che mai allora uscire dall’isolamento, superare le divisioni, recuperare le diverse anime del femminismo, costruire nuove alleanze con le donne disponibili dentro e fuori le istituzioni, con i collettivi, le associazioni, per provare a recuperare una capacità propositiva e riconquistare spazi e agibilità politica.

*Cooperativa E.V.A., Napoli

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