Maria Paola Memmola*

Un sapiente gioco di collaborazione tra operatrici di accoglienza e consulente legale ha permesso di ottenere giustizia ad una giovane donna che ha subito violenza dal partner dal 2011 al 2013, anche davanti al figlio. Ha pagato il suo coraggio di dire no, sorretta dal centro e nell’ultimo periodo anche dai suoi genitori.

La prima volta che G. è venuta da me era molto spaesata. Cercava aiuto. Marisa e Linda, le nostre operatrici, l’avevano già ascoltata con molta attenzione, considerando alto il rischio che correva. Venne quindi subito inviata da me perché si resero conto della gravità della situazione e di quello che stava vivendo. G. si tolse gli occhiali: aveva un occhio nero ed era incinta. Era anche molto giovane e nessuno sapeva ancora niente, neppure i suoi genitori. Con fare sbrigativo e fuggitivo mi disse: “avvocata, ho poco tempo. Se si accorge che sono venuta qui, mi ammazza”.
Abitava poco lontano dal centro ed era venuta di nascosto. Il compagno le impediva di uscire, di vestirsi secondo quello che era il suo gusto, di portare i capelli in un certo modo: solo tute e scarpe da ginnastica, diceva lui.
Ci demmo appuntamento per la settimana successiva. Marisa le dette tutti i nostri numeri, e si sentivano di nascosto. Io avevo in mente che dovevo subito chiamare i Carabinieri, anche per capire come fosse meglio agire. Intanto consigliai a G. di registrare con il cellulare quello che poteva, senza farsene accorgere, in particolare ogni volta che litigavano e che Lui la maltrattava.

Fino all’ora non c’era uno straccio di prova ed il marito sarebbe stato assolto se avessimo denunciato in quel momento. Mi misi in contatto con il Comandante dei Carabinieri di Viareggio, una persona sensibile ed umana, da cui accompagnai G. dopo circa una settimana. Mi sentii sollevata perché adesso anche le Forze dell’Ordine sapevano.

Mi dissero, però, che non era possibile procedere ancora all’arresto, perché non c’erano prove sufficienti. Nel frattempo, d’accordo con la giovane donna ci mettemmo in contatto con i suoi genitori.

Detti un appuntamento alla madre, chiedendole se poteva venire al Centro. La informai di ogni cosa. La donna rimase di stucco: era molto stupita e preoccupata e mi disse che in casa non si erano mai accorti di niente: il genero all’apparenza era una persona molto educata e gentile, insomma una persona irreprensibile nell’intero contesto sociale.

I genitori, tuttavia, allarmati, nei giorni successivi fornirono alla figlia un telefono cellulare con una nuova scheda sconosciuta al genero, per darle modo di chiamarli in qualsiasi momento in caso di difficoltà.

G. non aveva mai avuto il coraggio di denunciare fino ad allora: era l’anno 2013. Approfondendo le indagini, gli inquirenti acquisirono i vari referti del P.s.: G. negli ultimi due anni era stata molte volte al P.s. dell’Ospedale Versilia.

Aveva sempre dichiarato che le fratture riportate erano “cadute accidentali”; la più grave era avvenuta nel settembre del 2011: una frattura sacro coccigea per un calcio preso dal marito. Prognosi di 30 giorni.

G. In quel periodo rimase immobile nel letto per circa un mese: i parenti del marito sapevano, perché in quel momento erano ospiti nella loro casa in Versilia ed il calcio G. lo ricevette dinanzi agli occhi della suocera che quell’estate era venuta in vacanza. Nessuno ha mai confessato, neppure gli altri parenti, tra cui la sorella, la quale quando è venuta a testimoniare in aula penale ha dichiarato il falso, sostenendo che G. in quel mese di estate del 2011, non solo camminava, ma andava a lavorare!

Il Giudice, molto contrariato, in aula, leggendo il referto del P.s., ha esclamato: “come può una persona che ha riportato la frattura all’osso sacro alzarsi dal letto ed andare a lavorare? Le ricordo che Lei è’ sotto giuramento!” Sempre nel 2011 G. fu vittima di un altro episodio gravissimo: folle di rabbia, il compagno, le si avvicinò con una carica batteria in mano e lo annodo’ intorno al collo, fino quasi al punto di soffocarla. Poi quel giorno inizio’ a colpirla con calci e pugni.

Gli episodi nel corso degli anni sono stati tantissimi: frattura delle costole, dovuta ad un calcio al costale destro. Il colpo quel giorno fu talmente forte che G. rimase senza fiato per alcuni minuti. Riuscì a dire con un filo di voce che non riusciva a respirare si sentì rispondere: “Per me puoi anche morire qui sul tappeto”.

G. inizio’ ad andare da un chiropratico che ha contribuito alla sua salvezza.

Il medico, nel corso del tempo si rese conto di quello che la paziente stava subendo: non era possibile che una ragazza così giovane cadesse così spesso. Un giorno, finalmente G. ebbe il coraggio di dire la verità: le fratture delle costole, la frattura all’osso sacro non erano dovute a cause accidentali, ma le erano state provocate dai colpi e dai calci presi dal marito.

Il medico ha testimoniato nel corso del processo in aula penale ed ha confermato tutte le circostanze di cui era avvenuto a conoscenza.

Il 2 ottobre del 2013, quando ancora nessuno sapeva, G. è costretta ancora una volta a subire: è il punto più cruciale.
Quel giorno G. è costretta a preparare la cena per tutti i parenti del marito che Lui aveva invitato, senza neppure dirle nulla.

Per questo G. quel giorno mostra insofferenza. Si lamenta con la sorella del compagno, la quale a sua volta va in un’altra stanza e gli riferisce tutto.

È bastato questo per far trasformarlo in una furia: entra in cucina, dove G. stava cucinando e la minaccia con un coltello, una mannaia. Poi la colpisce con la lama non affilata sulla testa, dandole un pugno sull’occhio talmente forte che G. in sede di udienza dirà: “il colpo fu talmente violento che mi rimase l’occhio nero per parecchi giorni, ho avuto paura di perdere la vista per una emorragia”.

Tutto questo avveniva in casa, in un piccolo appartamento di soli settanta metri quadri, davanti agli occhi dei parenti, i quali venuti a testimoniare negavano ogni cosa è dicevano di non avere visto nulla.

G. dopo quel giorno ha avuto la forza di venire al Centro Antiviolenza.
Aveva un occhio nero e portava gli occhiali.

Dopo circa un mese, quando gli inquirenti avevano già raccolto vari elementi di riscontro in relazione a quanto da Lei raccontato, l’ultimo episodio: era una giornata bellissima e G. voleva portare il bambino fuori e fare una passeggiata. Il marito le dice: “no, tu oggi non esci, stai in casa”. Alle insistenze di G., si alza dal letto, iniziandola a colpire con calci e pugni sulla testa ed in varie parti del corpo ed esclamando: “vedi di stare zitta, te le cerchi proprio”.

G. quel giorno ha avuto la prontezza di accendere il registratore del suo cellulare. Fortunatamente se la cava bene con la tecnologia.

Dopo essere stata colpita con una violenza inaudita, il marito esce di casa. Lui, naturalmente, poteva farlo.
G. chiama il padre con il telefono di cui il marito non era a conoscenza.

Viene portata prima al Pronto Soccorso e poi in una struttura protetta. Nei confronti del marito è stata emessa, dopo la denuncia presentata quello stesso giorno, una ordinanza che disponeva l’allontanamento del soggetto violento dalla casa familiare.

A distanza di tre anni, G. adesso è rifiorita: Il coniuge, dopo varie vicissitudini giudiziarie, è stato condannato per maltrattamenti alla pena di 5 anni di reclusione, alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici ed a corrispondere €. 10.000,00 a titolo di provvisionale per il risarcimento del danno.

L’imputato ha cambiato città, speriamo per vergogna. G. adesso è legalmente separata ed è felice, anche perché ha trovato un nuovo amore che adora il suo bambino.

 

*Articolo scritto da Avv. Maria Paola Memmola, legale del Centro Antiviolenza “Casa Delle Donne” Di Viareggio, in collaborazione con le operatrici.