Serena Corsi*

Il filo che ha attraversato la discussione del Focus Group del Gruppo Donne Migranti nei Centri contro la violenza: Come la relazione ha prodotto cambiamenti è stata la domanda: ha ancora senso definirci native/migranti?

Ci siamo date risposte diverse.

Perché no: insistere su questa differenza potrebbe essere una trappola del patriarcato per tenerci divise, visto che i nostri denominatori in quanto donne più importanti delle differenze; inoltre questa definizione non è più restitutiva dell’esperienza delle seconde generazioni, tema su cui dovremo lavorare con le donne che soffrono le discriminazioni subite dai loro figli e dalle loro figlie ma anche facendo pressing sulle istituzioni affinché modificano le leggi che negano la cittadinanza a chi nasce o cresce qui.

Perché sì : “Native/Migranti” che ci piaccia o no riflette una diversa condizione giuridica, di accesso ai diritti; è inoltre un valorizzazione dell’esperienza della migrazione come incontro con l’alterità, come avventura per evolversi.

Cosa scaturisce da questo incontro tra native e migranti nei centri e con quali ricadute sulla metodologia?
In altre parola quanto lavoriamo meglio con tutte le donne, anche italiane, perché l’incontro con le migranti e le loro esperienze ci ha stimolato delle riflessioni, delle elaborazioni, degli svelamenti?
Lo impariamo dall’incontro con le altre culture quanto ci pesa la nostra colonizzazione culturale: un solo esempio, in alcuni centri si è iniziato a riflettere davvero sulla mercificazione del proprio corpo quando ci si è trovate a lavorare con le donne (migranti) vittime della tratta.

Da soggetti imprevisti della nostra storia di femministe europee, le migranti ci costringono a concettualizzare cose che altrimenti sarebbero arrivate molto più avanti nel tempo, a soffermarci su dei tabù su cui nelle nostre associazioni è difficile confrontarci, ci forniscono quindi un potenziamento leggibile soprattutto nei termini di Perdita (o rincuncia) all’autoreferenzialità; questa non solo è necessaria, ma per fortuna fisiologica nelle esperienze in cui progetti specifici sulla migrazione femminile sono ormai funzionanti e radicati da anni.
E così: nella relazione, semplicemente, avviene.

Questo non solo per i percorsi e le storie delle donne ma anche in funzione, all’interno di questi progetti, della maggiore presenza di operatrici migranti, grazie alle quali si vivono rispecchiamenti reciproci, spostamenti talvolta simmetrici, in un ricerca personale e collettiva permanente, che lascia spazio a sempre più domande e sempre meno risposte date una volta per tutte.

Infatti domande che inizialmente riguardano gli stili di vita altrui, col passare del tempo diventano sempre di più domande sul nostro stile di vita, sul nostro stato dell’arte rispetto alla liberazione delle donne in occidente; lo stesso accade simmetricamente alle donne migranti, sia operatrici che accolte.

E’ solo nel corpo a corpo, in questa relazione in cui smettiamo di essere auto-referenziali, che troviamo modalità creative che si ripercuotono anche sulla metodologia: un esempio è l’accoglienza informale che sperimentiamo nei Progetti di Modena e Reggio Emilia con le migranti, vale a dire uno spazio di relazione diffusa, di socialità, di condivisione di un pasto, di momenti di aggregazione “a bassa soglia” che gettano le basi poi perché nella donna nasca il desiderio e la fiducia di fare un percorso personalizzato, che spesso fa emergere col tempo anche il problema della violenza.

A proposito di libertà e autodeterminazione abbiamo anche cercato di affrontare nodi su cui è possibile leggere una certa rigidità per la storia dei Centri, per esempio sulla spiritualità o sull’autonomia economica, nodi che è necessario affrontare perché riguardano concretamente i percorsi delle donne e la loro autodeterminazione. Non è facile evitare di proporre inconsapevolmente modelli prefigurati senza dall’altro lato scadere nel relativismo culturale; siamo concordi nel tenere fermo l’orizzonte di “più diritti per tutte” e di non arretrare sui diritti frutto della lotta del movimento delle donne in Italia nei decenni trascorsi.

“Più diritti per tutte” quindi a cominciare dai diritti di cittadinanza, perché dall’assenza di essi discende una disparità inguaribile, che ci fa male, ma soprattutto perché, con questa espulsione dai diritti di cittadinanza che tocchiamo concretamente nel lavoro con donne migranti e i loro figli, possiamo prefigurare quello che accadrà a tutte se continuiamo a permettere che sia la logica del mercato a decidere della vita.

A questo proposito abbiamo condiviso il proposito di dire finalmente la nostra come Associazione D.i.Re sulla vergogna delle frontiere militarizzate, degli spostamenti di donne consegnate nelle mani delle mafie e dell’illegalità, della promiscuità in cui sono costrette a vivere le donne “prigioniere” nei Centri di Identificazione una volta sbarcate in Europa, delle violenze che subiscono prima di arrivare. Adesso c’è un sistema di accoglienza neutro, che non tiene conto delle diverse violenze subite dalle donne nel percorso di arrivo. Siamo convinte che queste donne e le loro storie dovrebbero essere accolte “alla maniera femminista” esattamente come lo crediamo delle donne che portano nei Centri i loro vissuti di violenza.
A livello pubblico possiamo sostenere movimenti e campagna già attivi nel promuovere un approccio femminista e di genere, per esempio la Rete No Muri No Recinti di cui Floriana Lipparini ha parlato nell’ assemblea pleanaria e che ha già riconosciuto l’ assenza di racconti “sul e al femminile”.

A un livello più micro, dovremmo anche fare rete tra di noi per far emergere violazioni dei diritti di cittadinanza (mancato rilascio del tesserino sanitario, ostacoli all’ottenimento della residenza…) su questioni che potrebbero essere risolte con una pressione politica a livello territoriale/regionale, facendo funzionare Gruppi di Lavoro che si aggiornano a vicenda su questi fronti.

Infine, ci siamo dette che è identica la matrice all’origine di episodi violenza di genere apparentemente molto distanti tra loro: dalle donne profughe abbandonate dai trafficanti a morire nel deserto, alla parlamentare britannica uccisa da un fanatico nazionalista, alla donna nigeriana trovata morta l’altro ieri sui binari in Campania, alla strage di Orlando, ai femminicidi perpetrati dai partner o ex partner.

Sta a noi saper leggere quest’identica matrice sessista, nominarla, e narrarla pubblicamente.

 

*Responsabile Progetto Lunenomadi- Associazione Nondasola, Reggio Emilia